In pochi, a Reggio Emilia come nel resto d'Italia, avevano prestato attenzione al messaggio del Maresciallo Badoglio all’indomani del suo insediamento come Capo del Governo, dopo l'arresto di Mussolini: la guerra continua a fianco dell’alleato tedesco e alle norme sull’ordine pubblico emanate dal generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito: Qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo e di qualsiasi tinta costituisce tradimento; poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue… chiunque compia atti di violenza e di ribellione… venga immediatamente passato per le armi.
Il 28 luglio 1943 migliaia di operai delle OMI Reggiane si presentarono al lavoro decisi a sfilare per le vie cittadine chiedendo la fine della guerra: uomini e donne disarmati, inneggianti alla pace e al re, innalzanti bandiere tricolori.
Nove operai, fra cui una donna incinta, rimasero uccisi durante il corteo: Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Angelo Tanzi e Domenica Secchi. Decine furono i feriti. Ancora oggi non sappiamo se ad aprire il fuoco siano state le guardie giurate della fabbrica o un plotone di bersaglieri. L’eccidio è rimasto impunito.
Quando in città si seppe della strage vi furono manifestazioni spontanee di protesta e solidarietà, in particolare alla Lombardini e il giorno successivo alle stesse OMI.
Dopo l'8 settembre 1943, e in conseguenza anche della strage, molti giovani si diedero alla clandestinità e aderirono alle prime formazioni partigiane.
A distanza di anni venne posta all’ingresso delle Officine la targa commemorativa che oggi si trova all’interno del Tecnopolo.