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Sangue alle Reggiane

Avevo allora diciotto anni.

Due giorni prima con una dozzina di giovani avevamo ispezionato minutamente reparto per reparto l'officina spaccando, lacerando, tagliuzzando i quadri del « Dittatore » con gioia e soddisfazione, tanto da stancarci e metterci, dopo quella piccola rivoluzione, nel prato adiacente, chi su un sasso, chi sull'erba per raccontarci il fatto, esaltandolo, come se avessimo adempiuto una grande impresa.

Eravamo contenti, anche se alcuni di noi, nella foga di « rompere » si erano tagliuzzati le mani con vetri, costretti ad involgerle nei fazzoletti che erano diventati rossi.

Ma non si badava a questo: che importava?

Eravamo contenti.

Il passo romano; gli schiaffi del federale nella sede; il rigido sull'attenti davanti ad un imbecille; il canto forzato di « giovinezza » e le angherie e soprusi passati, erano già dimenticati.

Eravamo contenti quel giorno.

Allora un operaio smilzo, alzandosi improvvisamente su di un banco, urlò:

« Vogliamo uscire! Pace! Pace! Pace! »

« Evviva il Re » gridammo noi.

« Basta con la guerra! Basta! »

Tre giovani intanto, staccando dalle pareti ritratti del Re, ne avevano fatto dei cartelloni alzandoli in alto.

« Evviva! Evviva il Re Imperatore! » si gridava.

«Vogliamo uscire» si diceva lontano.

Poi, come tante formiche brulicanti che escono dalle tane, uscimmo dai reparti sulla strada che portava al cancello, gridando.

Avanzavamo compatti come una barriera.

Un giovanetto, con il ritratto del Re, si era arrampicato su di una torre dei fili telegrafici e di lassù gridava:
« Evviva! Evviva! Evviva! »

Ma davanti al cancello, stavano i soldati con dei moschetti in mano, mentre un ufficiale che aveva la camicia fine fine, dava ordini ad un soldato sdraiato di mettere a punto uno strano aggeggio tutto bucato con tre piedestalli avendo accanto a sé cassettine rettangolari di latta. 

Io ero contento quel giorno.

Pensavo quante volte avevo giocato alla guerra nel cortile del rione e nel boschetto, facendo tanti prigionieri, legandoli poi con filo di ferro gridando loro: « Bum! Bum! »

Un giorno avevamo fatto una mitragliatrice con rami di olmo e posto su di essa degli elastici rubati dal meccanico, che sparava carta pesta contro « i nemici ». Assomigliava tanto al « coso » del soldato sdraiato, che volevo andare da lui, per raccontargli quando noi ragazzi giocavamo alla guerra contro i « brutali abissini »·

« Ah! se ci fosse Pino qui, glielo faremmo vedere noi come si fa e si adopera quel "coso " », pensavo.

Il soldato, intanto, guardava ansioso intorno.

« No, no, soldato, non si fa così, i nemici ti possono cogliere ».

« Che razza di soldati abbiamo noi? » pensavo.

« Ah! se ci fosse Pino! »

lo ero contento quel giorno.

« Evviva, evviva, vogliamo la pace! Vogliamo uscire », si gridava ovunque. Avanzavamo.

Oramai vedevamo gli occhi smarriti dei soldati e quelli dell'ufficiale, che mandavano lampi di odio.

« Carogne », urlava esso estraendo una rivoltella « vera », lucida, fiammeggiante.

« Non fate un passo di più. Io sparo; noi spariamo! »

« Carogne andate indietro ».

Noi avanzavamo lentamente.

« Io sparo! » gridava.

« Anche lui gioca alla guerra » pensavo.

« Però in guerra non ci si deve andare, con una camicia fine fine o la stilografica d'oro nel taschino »  

« Ah! se ci fossero Pino e Carlo, gli faremmo vedere noi come si fa ».

Alcuni soldati tenevano i fucili verso il ciclo e altri verso terra.

«No, no, non ci siamo! »

« Questi sono i nostri soldati».

« Puff! non ci siamo! » mi dicevo.

Avanzavamo lentamente come una barriera; avanzavamo.

« Fuoco », fu la risposta.

Io ero contento.

Un rumore assordante che lacerava i timpani, che squarciava l'aria, faceva tremare i muri e la terra, usciva da questi « cosi », che sputavano fiamme rossastre e piene di fumo.

Mi buttai a terra, come decine, centinaia, migliaia di volte, quando nel boschetto ci preparavamo ad andare al «contrattacco», sotto una fittaiola di sassi e di terriccio.

Ero stato svelto e questo mi rendeva orgoglioso nel pensare che ancora ero capace di giocare alla guerra.

Voltai allora, appena il viso indietro e scorsi gli operai scappare.

Andai su tutte le furie alla vista di tanta «codardia ».

« Non scappate! Non scappate mammalucchi! Non vedete che fingono ».

« Sparano a salve! » gridavo.

« Dove andate pecoroni? ritornate indietro! » urlavo a più non posso.

Ero dietro ad un corpo umano che cadde giù mentre anch'io mi buttavo e che aveva lasciato andare una borsa di tela da dove erano usciti due mele e un pezzetto di formaggio che puzzava maledettamente.

Allungai un braccio e gridai: « Ehi tu, hai perduto le mele e il formaggio! »

Nessuna risposta.

In quel frattempo, due donne, dalla portineria gridavano e si strappavano i capelli pazzamente.

« Ma che cos'hanno da gridare, mondo cane », pensavo.

« Voialtre donne... andate a preparare da mangiare! »

« Ma perché continuano ancora con questi "cosi"? »

« Adesso basta! avete spaventato delle donne! »

« Basta! »

Io ero contento.

Toccai di nuovo il corpo vicino.

« Ehi tu, hai perso la voce? » dissi rovesciandolo verso di me.

Non parlava: aveva gli occhi vitrei, mentre nella camicia aveva uno squarcio da dove usciva uno spinello color rosso.

« Strano », pensai, « perché mai proprio color rosso? >>

Misi una mano sul petto e la ritirai sporca di quello strano colore e me lo portai istintivamente al naso: ebbi orrore; tanto da sentirmi drizzare i capelli: era sangue.

« Ma allora? »

Compresi.

Guardai i miei vestiti e la maglia che poche ore prima la mamma mi aveva dato, dicendomi di non sporcarla: era tutta macchiata di sangue e mi bagnava i fianchi.

« Ma allora? »

Girai lo sguardo attorno: il terreno era tappezzato di corpi immobili; il sangue scorreva ovunque.

A pochi passi sdraiata su di un fianco, una donna vestita di nero, con un ventre enorme squarciato, perdeva abbondantemente sangue.

Tutti e due li avevano uccisi.

Accanto al muro crivellato di colpi, un compagno di scuola che tante volte alle « Professionali » aveva marinato la scuola per andare a giocare alle figurine « Perugina », stava col viso rivolto al cielo. Un grosso proiettile gli aveva trapassato la fronte.

Non compresi più nulla.

La testa mi cominciò a ronzare, gli occhi vedevano altri corpi abbandonati sui cavoli dell'adiacente orto di guerra, mentre scorgevo sulla torre meccanica il ritratto del Re abbandonato solo.

Appoggiai il viso in terra tra il sangue dei compagni e lì piansi; mentre sentivo che qualcosa tanto a me cara se ne era andata improvvisamente per sempre, per tutta la vita: la mia giovinezza.

In quell'attimo ero diventato vecchio.

Allora gridai: « Assassini! »

Il grido non si fermava ai soldati, ma andava oltre, più in là, più in alto, verso qualcosa che appena, appena ero riuscito a percepire.

Guidotti L. L'uomo delle Reggiane, Il Voltone, 1983, pp. 56-59